domenica

Ipnosi e psicoanalisi

a cura di Enrico de Sanctis

L'ipnosi è una tecnica antica, utilizzata in modo sistematico alla fine dell'Ottocento dai padri fondatori della psicoanalisi.
Con la nascita della psicoanalisi nei primi del Novecento è stata abbandonata per alcuni decenni, finché la comunità scientifica americana negli anni Quaranta, con Milton Erickson capostipite, la riprese studiandola approfonditamente e applicandola di nuovo in ambito clinico.

Tecnica senz'altro affascinante, al punto da catturare l'attenzione dei media e di tanti guru che la penalizzano con derive spettacolaristiche – in particolar modo legate alla regressione e all'esplorazione  di vite precedenti –, l'ipnosi oggi recupera una sua identità, con una validità e una sua funzione interessanti.

Ritengo fondamentale che l'ipnosi sia appannaggio dello psicoterapeuta con una lunga formazione ed una significativa esperienza, in grado cioè di gestirla non soltanto sotto un punto di vista tecnicistico, ma all'interno della relazione terapeutica con il paziente, tenendo presente la sua storia e la complessità dei suoi vissuti.

Punto cardine dell'ipnosi è lo stato di trance. Si suppone che in questo speciale stato di coscienza, che non sono la veglia né il sonno, la persona abbia accesso a una dimensione di creatività, in cui si trovano le sue risorse. L'obiettivo è recuperarle affinché il paziente, soggettivamente e liberamente, se ne serva per riuscire a vivere nel modo più giusto per sé.

Non è del tutto corretto dire che la trance viene indotta dallo psicoterapeuta. Intanto perché la trance non è indotta, ma è una condizione naturale di tutti noi, che la possiamo vivere durante la giornata in forme più e meno profonde. Inoltre, non è lo psicoterapeuta che induce questo stato, ma è la persona, tramite l'aiuto del professionista, a rintracciarlo e a viverlo. 
In alcuni casi è semplice riconoscere e vivere il proprio stato di trance, in altri è difficile, alcune volte impossibile. Quest'ultima condizione è molto preziosa da considerare, perché significa che la persona ha una caratteristica naturale, che potremmo anche dire primaria, che è del tutto inibita. Andrà quindi rievocato quello stato speciale di coscienza, in un certo senso opportunamente ricostruito, affinché la persona possa poi servirsene.

A seguito di una rigorosa formazione in psicoterapia analitica, ho voluto approfondire l'ipnosi per diversi ragioni.
Mi interessava conoscere di più gli stati di coscienza - come la veglia, il sonno e lo stato di trance -, la specializzazione di ognuno di essi e la loro relazione con le emozioni. Ero curioso di studiare gli aspetti neurobiologici della coscienza, dove hanno sede la razionalità e la parola, dove si localizza il vissuto emotivo della persona e dove si sviluppa la sua creatività.
Inoltre mi interessava approfondire l'inibizione di questi stati, in relazione alle esperienze negative della vita, e quale fosse il loro contributo nello sviluppo comportamentale e nelle reazioni dell'essere umano.

Strada facendo, negli anni, mi sono accorto dell'importanza di tenere in considerazione l'esperienza naturale della trance come stato speciale di coscienza della persona, avendo poi l'occasione di riconoscerlo durante la psicoterapia analitica stessa.

A volte si sostiene che la psicoterapia, soprattutto analitica, sia fondata sulla parola. A mio modo di vedere, questo è del tutto sbagliato. 
Potremmo dire che una psicoterapia analitica ben condotta funziona quando si sviluppa una connessione emotiva tra paziente e terapeuta. Potremmo dire che funziona quando il paziente sperimenta i propri vissuti, al di là della parola, vivendoli ed esprimendoli nella particolare relazione con il terapeuta. Contemporaneamente, nel tempo, il paziente diventerà capace di gestire i suoi vissuti emotivi anche attraverso la parola, la riflessione, la progettualità.

Il paziente non deve utilizzare la parola deprivata del suo vissuto emotivo. Se questo avviene e non viene tenuto in attenta considerazione, questa non è una psicoterapia analitica. La parola dev'essere al servizio del paziente e delle sue emozioni, non viceversa.

Dott. Enrico de Sanctis
psicologo-psicoterapeuta
Via Amico da Venafro 14, 00176 Roma
Tel. 06 94363046

Copyright © psicologo-milano.blogspot.com di Enrico de Sanctis

sabato

Attacco di panico

a cura di Enrico de Sanctis

Gli attacchi di panico sono considerati brevi episodi di forte stress emotivo e di intensa angoscia, che si manifestano attraverso sintomi fisiologici (es. senso di soffocamento, vertigini, sudorazione eccessiva, tachicardia) e sensazioni psicologiche di pericolo e morte. In ambito psicopatologico il nome tecnico è Disturbo di Panico, un tempo identificato come Disturbo da Attacchi di Panico o DAP.

Generalmente l’atteggiamento più spontaneo di una persona, che vive questa manifestazione del corpo così allarmante, è quello di trovare dei rimedi pratici il più velocemente possibile (metodi per rilassarsi, farmaci ecc.), che possano attenuare o interrompere l’attacco di panico. Questo senz’altro è comprensibile, desiderare cioè che questa forma di malessere sia interrotta o evitata. La cosa più importante, però, sarebbe affrontarla e superarla, per quanto questo implichi impegno e tempo.
Questi rimedi, in effetti, per quanto utili al momento, non consentono alla persona la sicurezza che l’attacco di panico non verrà né forniscono un modo, che è invece indispensabile dal mio punto di vista, per poter gestire con le proprie forze situazioni di difficoltà che possono generare un attacco di panico. Un modo per sentirsi padroni di sé e del proprio corpo.

A questo proposito mi piace comunicarvi alcune idee, che sono degli spunti interessanti a mio modo di vedere, proprio per poter superare l’attacco di panico. Il modo è quello di comprendere il suo significato e gestire una complessità di vissuti che lo generano. Anche se non è semplice né immediato come un rimedio all’occorrenza, avremo però nel tempo una risorsa fondamentale, che non dipende da un fattore esterno, ma da noi stessi.
L’idea principale, su cui credo importante soffermarci, è la correlazione tra l'attacco di panico e i vissuti legati alla separazione, alla perdita, al senso di mancanza.

In termini fisiologici, ci è utile fare un riferimento al primo e inevitabile attacco di panico che avviene durante la nascita, che è dovuto all'atto di separazione funzionale all'adattamento alla vita extrauterina. Senza entrare in dettagli troppo tecnici, il neonato, che non ha mai respirato prima di quel momento, si trova ora senza risorse e senza la modalità di vita precedente, in cui non doveva fare nulla per sopravvivere. Il neonato così entra in uno stato talmente traumatico (es. tachicardia, spasmi toracici, reale sensazione di morte), a partire dal quale sarà possibile ricevere l'impulso per respirare, cosa che noi percepiamo tramite il suo grido disperato - e forse in parte anche vittorioso e liberatorio! - spesso confuso con il pianto. L'atto della nascita, quindi, è la prima esperienza fisiologica di panico, che nessuno di noi può evitare: segna l'ingresso alla vita extrauterina, a partire dal quale l'essere umano inizia il suo lungo cammino verso l'autonomia.

In termini psicologici, si può vivere questo stato fortemente ansioso in relazione a un vissuto abbandonico o a eventi particolarmente stressanti, evocativi di quel vissuto. Questo tema implica l'apertura a molteplici e complessi punti di vista legati alle teorie della mente, che in questo momento scelgo di non approfondire. Ci tengo soltanto a sottolineare la relazione tra l'ansia di separazione, il rifiuto da parte dell'altro e la sfiducia che la persona ha di sé. 

Ognuno di noi, infatti, può separarsi davvero e sentirsi autonomo soltanto se ha avuto una buona relazione alle spalle, che ha favorito lo sviluppo di una positiva immagine di sé e delle risorse necessarie per muoversi nel mondo. Il bambino, così divenuto adulto, sa che la relazione con gli altri può essere buona e ricca di potenzialità, e si avventura nel mondo con un senso di fiducia e creatività, capace di affrontare le difficoltà e i limiti.
Il termine ansia di separazione vuole indicare quelle situazioni in cui la persona sente, invece, di non riuscire a farcela da solo, come se vivesse un senso di smarrimento e di angoscia per l'assenza dell'altro. La persona non sa cosa è meglio per sé, non sente di avere uno spazio nel mondo che è spesso poco ospitale ed estraneo. La persona sembra non riuscire a liberarsi di questi vissuti e può restare con la speranza illusoria che un giorno le cose cambieranno e quel mondo tanto desiderato potrà diventare una realtà d'amore. In alcuni casi si rileva come la persona si sente colpevole di essere inadeguata e coltiva l'idea che, solo se cambierà secondo il desiderio degli altri, essi non saranno più ostili.

Mi piace concludere con un riferimento a un pensiero psicoanalitico classico, rivisitato secondo i più recenti studi psicoanalitici e neuroscientifici, secondo cui si può ipotizzare, come già accennavamo, che l'attacco di panico potrebbe essere non soltanto un cattivo segno. 

Se pensiamo al neonato, infatti, possiamo accorgerci con evidenza che è solo grazie all'attacco di panico che il piccolo umano riuscirà a sopravvivere. Perciò, se da una parte l'attacco di panico mostra tutto il dolore e la paura che una persona vive, dall'altra potrebbe essere il tentativo di emergere da una condizione di malessere e, potremmo dire, di nascere esattamente come fa il neonato, anche se nel caso dell'adulto si tratterebbe di una  rinascita. In assenza del vissuto di panico, così come il neonato morirebbe, allo stesso modo potremmo dire che l'adulto resterebbe nel suo mondo di privazioni e continuerebbe a lasciarsi vivere in una condizione di morte esistenziale. L'attacco di panico, perciò, porta con sé un senso di disperazione, impotenza e paura, ma anche un tentativo di trovare la via autentica di espressione di sé.

Dott. Enrico de Sanctis
psicologo-psicoterapeuta
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